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La rimozione della morte in psicologia e psichiatria

Che cosa hanno capito la psicologia e la psichiatria di quest’antica e primaria fonte di malessere della mente umana, che ha concorso a plasmare le culture e le civiltà dai loro inizi più remoti e che concorre potentemente alla formazione ed alla esplosione delle varie patologie individuali e sociali ? Secondo me, ne hanno capito ben poco.

Beninteso, l’insistenza con cui in questo ed altri miei scritti viene evidenziata sia l’importanza dell’angoscia di morte nella genesi della sofferenza psichica umana, sia la sistematica rimozione di tale angoscia nelle principali teorie della cultura e della psicopatologia non deve indurre a concludere che l’approccio esistenziale umanistico veda in tale angoscia l’unica causa di patologia mentale.

La nostra posizione, a differenza da quella di altre scuole, non nega affatto il peso e il ruolo di altri fattori, ma ritiene che la centralità dell’angoscia di morte sia stata negata da gran parte della psicologia e della psichiatria, con effetti esiziali sulla possibilità di capire la dinamica psichica individuale e sociale.

Paradossalmente, proprio le scienze che hanno dedicato immense energie allo studio di due fenomeni capitali della psiche umana, l’angoscia e la rimozione, hanno finito per rimuovere o negare la massima e più antica angoscia umana: l’angoscia della morte con le sue micidiali elaborazioni sociali e culturali attraverso i millenni.

Il padre stesso della psicologia moderna, Sigmund Freud, fu ossessionato per tutta la vita dall’angoscia della morte ma occultò così totalmente quell’angoscia nelle sue teorie da trasformarla in un desiderio inconscio: il cosiddetto istinto di morte. Freud stesso ammise di non aver mai trascorso una giornata intera senza aver pensato ripetutamente alla morte. Fin da giovane, usava salutare gli amici dicendo: “Addio, chissà se ci rivedremo…”

A quest’angoscia di morte si collegava in Freud (come in tante altre persone) la paura di viaggiare, che lo assaliva ogni volta che lasciava Vienna da solo. Come in molte altre fobie, quella paura nasceva dalla paura di morire (in viaggio) che, a sua volta, lo spingeva a fantasie di strazianti commiati. Altre volte, come durante un viaggio in Grecia, gli bastava imbattersi, in albergo e sulla nave, nello stesso numero di cabina e di stanza (62) per sviluppare un’acuta e tenace paura di morire a 62 anni.

E’ significativo, infine che Freud sia svenuto due sole volte in vita sua (la prima, nel 1909, a Brema, e la seconda nel 1912, a Monaco) e che tutt’e due le volte ciò sia accaduto mentre la conversazione indugiava su problemi di morte e imbalsamazione. E non meno significativo è il fatto che ciò sia avvenuto mentre Freud stava insieme a Carl Gustav Jung, l’”erede designato” che Freud cominciava a sospettare di nutrire “impulsi parricidi” in quanto minacciava con le sue “eresie” il “progetto di immortalità” imbastito da Freud intorno all’ortodossìa psicoanalitica.

E’ alla luce di questa drammatica realtà personale che il pervicace rifiuto di Fred di riconoscere l’importanza pervasiva dell’angoscia di morte nella vita psichica umana appare incredibile sul piano logico, anche se perfettamente comprensibile sul piano psico-logico.

Quel rifiuto si concretò in forma sistematica nell’opera Al di là del principio del piacere, pubblicata nel 1920. E la data di pubblicazione di quest’opera non è certo casuale, perché proprio la realtà atroce della guerra mondiale, le ansie per i figli impegnati al fronte e l’approssimarsi del febbraio 1918 (data fatale in cui Freud era convinto di dover morire) avevano riproposto drammaticamente al fondatore della psicoanalisi il problema dell’angoscia di morte così a lungo negato nelle sue teorie. In Al di là del principio del piacere (un’opera che indubbiamente gettò le basi del conflitto con Reich e Rank, prima, e con tutti i neofreudiani, poi) Freud abbandonò dunque l’assunto originario della psicoanalisi – e cioè che tutta l’attività psichica fosse governata dal principio del piacere – passando a sostenere che nella psiche umana, come in tutto il vivente, era all’opera non solo l’istinto erotico, cioè Eros, ma anche un altrettanto profondo istinto di morte, cioè Thanatos: una spinta autodistruttiva che, esternalizzandosi, produceva la distruttività intraspecifica tipica della specie umana e che tendeva a riportare l’organismo umano, come tutta la materia, ad una condizione d’omologazione e d’inerzia da Freud definito “stato di nirvana”, usando non a caso il termine buddista per indicare lo stato di beatitudine ultraterrena.

“Se noi accettiamo come verità universale – scrive Freud in quell’opera cruciale – il fatto che tutto quanto vive muore per cause interne tornando allo stato inorganico, allora dovremo anche concludere che lo scopo di ogni vita è la morte…”

Certo, tutta la lotta disperata di ogni organismo contro la morte rendeva a dir poco temeraria una simile tesi, ma Freud non se ne sgomentava e continuava così il suo vaneggiamento:

“Vista sotto questa luce, l’importanza teorica dell’istinto d’autoconservazione diminuisce notevolmente: si tratta di una funzione parziale, il cui compito è di garantire ad ogni organismo il suo cammino verso la morte (sic!) e di salvaguardarlo da altre modalità di ritorno allo stato inorganico estrinseche all’organismo stesso. E allora non dobbiamo più fare i conti con la misteriosa spinta d’ogni organismo a preservare la sua esistenza (sic! sic!), una spinta così difficile da comprendere… Ci resta solo il fatto che ogni organismo desidera morire a modo suo (sic! sic! sic!). L’organismo vivente, insomma lotta con tutte le sue forze contro i fattori che potrebbero aiutarlo a conseguire rapidamente lo scopo della sua vita, appunto la morte, con una sorta di cortocircuito”.

La contorsione logica è davvero stupefacente, a prima vista, per un ingegno lucido come quello di Freud, ma essa diventa comprensibilissima se la colleghiamo alla esigenza di difendere la negazione dell’angoscia di morte che aveva sempre governato il pensiero di Freud fino al punto di vietargli di prendere coscienza delle sue stesse, costanti angosce di morte. Con quella contorsione logica, infatti, Freud riusciva a trasformare l’angoscia della morte in desiderio di morte e la morte da minaccia terrificante in sogno paradisiaco (nirvana). E tutto ciò aveva ovviamente per lui un valore rassicurante e consolatorio, sia perché gli evitava di affrontare un tema che lo atterriva, sia perché gli consentiva di vedere la morte come un approdo desiderato.

Le conseguenze di questa copertura dell’angoscia coll’istinto di morte furono comunque gravissimi sul piano clinico e sociale.

Sul piano sociale, la riaffermazione della visione denigratoria dell’uomo tipica della tradizione religiosa (“La psicoanalisi – scriverà Freud nel “Disagio nella civiltà” – non può che confermare la tesi della religione: e cioè che siamo tutti dei poveri peccatori”) scoraggiò in vasti ambienti scientifici e culturali la speranza in una evoluzione umana ispirata al progresso, alla pace, alla creatività e alla solidarietà.

Sul piano clinico e terapeutico, la negazione dell’angoscia primaria compromise radicalmente la comprensione delle cause profonde del malessere psichico umano ed ostacolò gravemente lo sviluppo di terapie efficaci. Così, per esempio, nel suo famoso “Trattato di psicoanalisi” (quasi mille pagine con oltre 1600 rimandi bibliografici) Otto Fenichel scrive: “E’ molto dubbio che esista una paura naturale della morte (sic!). Ogni paura di morire copre altre idee inconsce: spinte libidiche o ansie di castrazione”.

L’impatto di queste tesi di Freud circa un presunto “istinto di morte” fu enorme sia sui suoi discepoli sia, in generale, sull’atteggiamento sociale della psicoanalisi, che assunse un carattere sempre più conservatore e immobilistico.

Tutti i principali esponenti della psicoanalisi ortodossa (da Reik ad Alexander, dalla Deutsch alla Klein, da Hesnard ai nostri Musatti, Servadio e Fornari) seguirono Freud in questa radicale rimozione e negazione dell’angoscia di morte e nella sua sostituzione coll’istinto di morte e con le relative pulsioni autodistruttive e distruttive. Questa secolare cecità della psicoanalisi ortodossa mi sembra di per sé una prova lampante delle resistenze diffuse nel mondo psicoanalitico, come del resto altrove, ad una presa di coscienza dell’angoscia primaria di morte.

Significativamente, anche i grandi eretici della psicoanalisi, pur rifiutando radicalmente l’ipotesi freudiana dell’istinto di morte, rimossero l’angoscia di morte con la stessa tenacia di Freud. Per esempio, in tutti gli scritti dedicati da Carl Gustav Jung ai principali fattori di nevrosi e psicosi e pubblicati col titolo “Psicogenesi delle ma-lattie mentali” l’angoscia di morte non è mai menzionata tra le cause del malessere e della patologia psichica e ad essa non viene dedicata neppure una riga.

A sua volta Alfred Adler, che pure aveva intrapreso la sua formazione e carriera medica per combattere l’angoscia di morte da cui era tormentato, si limitò a spostare il fattore centrale del disturbo mentale dalla repressione della sessualità alla frustrazione della volontà di potenza ad opera dell’ambiente familiare e sociale, ma non lasciò nessuno spazio all’angoscia più antica dell’uomo.

Con Wilhelm Reich ed i neo-freudiani esplode in modo esplicito la contestazione della teoria freudiana dell’istinto di morte, ma la rimozione dell’angoscia di morte anziché attenuarsi si accentua. Com’è noto, per Reich (come per il primo Freud) la fonte primaria dell’angoscia e della psicopatologia è la repressione della sessualità naturale da parte della società maschilista e autoritaria, che a sua volta utilizza consciamente o inconsciamente tale repressione per rendere le masse gregarie verso l’autorità costituita e aggressive verso i nemici esterni e interni, presunti o reali, di tale autorità.

Ogni malattia fisica e psichica, individuale e sociale, deriva direttamente o indirettamente, secondo Reich, dalla repressione sessuale e la bonifica della patologia individuale e sociale sarebbe assicurata da un ritorno a forme naturali e libertarie di educazione, sviluppo e vita sessuale. Anche in Wilhelm Reich, cioè nel pensatore che ha dato un contributo tanto decisivo all’applicazione della psicologia dinamica al sociale, gli effetti rovinosi e deformanti della negazione dell’angoscia di morte emergono dunque con chiarezza, non solo nell’adesione acritica ad un facile mito paradisiaco di universale felicità in chiave naturalistica, ma anche in una crescente distorsione della sua personalità in chiave messianico-paranoicale.

La gravità di questa distorsione, che negli ultimi anni toccò in Reich punte deliranti, può essere meglio spiegata, significativamente, proprio tenendo presente la rimozione dell’angoscia di morte e dei relativi sensi di colpa nella psiche di Reich: è lecito pensare che in Reich tale rimozione, per via del duplice suicidio dei genitori e del ruolo tragico che egli vi aveva avuto, sia stata particolarmente radicale ed abbia concorso ad esasperare in lui i tratti paranoidei del carattere.

Sulla scia della contestazione reichiana dell’istinto di morte, tutti i neofreudiani – da Fromm alla Horney, da Kardiner a Sullivan – si muovono in un’ottica russoiano-naturalistica e attribuiscono solo ai condizionamenti culturali le distorsioni caratteriali e le conflittualità esistenti tra i vari gruppi umani e al loro interno.

Ciò che essi, però, non si chiedono è quale sia stata la matrice delle società malate che hanno fatto poi ammalare i loro componenti. Se l’uomo primitivo era tanto sano, buono, felice e pacifico come già nel ‘700 aveva sostenuto Jean Jacques Rousseau, come aveva potuto creare tante società malate, malvagie e patogene ? Ma nessun pensatore di stampo russoiano può porsi questa domanda perché essa metterebbe a repentaglio il mito consolatore della Natura Provvida e Amorevole con cui egli ha sostituito la Provvidenza Divina, e il Mito del Ritorno all’Armonia del Bon Sauvage con cui ha sostituito i paradisi religiosi.

Soprattutto, i nipotini di Rousseau non possono porsi questa fatale domanda perché essa solleverebbe proprio quel problema dell’angoscia primaria di morte e della condizione esistenziale umana che essi hanno così disperatamente tentato di rimuovere.

Comunque, la negazione dell’angoscia di morte non fu di certo un fenomeno limitato al mondo psicoanalitico. Anche nelle altre scuole di psicologia e psichiatria e nelle relative tecniche terapeutiche si cercherebbe invano un riconoscimento dell’angoscia di morte come fattore psicopatogeno del singolo e, men che meno, dei gruppi o della specie umana.

Anche a livello di semplice ricerca, il tema della morte risulta incredibilmente trascurato. Questa, del resto, è la conclusione cui perviene anche uno dei pochi studiosi della materia, Herman Feifel, nel suo contributo a “Existential Psychology” (1961):

“Dopo aver approfondito sistematicamente la massa imponente di scritti, famosi e meno famosi, che costituiscono la letteratura psicologica, si scopre con vivo sgomento quanto poco sia stato esplorato il tema degli atteggiamenti umani verso la morte”.

Così, sebbene ci sia ampio consenso sul fatto che la psicologia fu, fin dai suoi inizi, “interrogazione sull’uomo e formulazione di teorie complesse sulla natura e sulla psiche umana” e che “Darwin diede il colpo definitivo alla legittimazione trascendente dello spirito umano”, né nella psicologia sperimentale di Weber. Fechner e Wundt, né nelle teorie funzionaliste di Hall, né in quelle pragmatiste e comportamentiste di Watson e Skinner, né in quelle gestaltiste di Perls, né in quelle transazionaliste di Berne, né insomma in tutto il panorama della psicologia clinica e sociale, si può trovare una sistematica attenzione o anche solo una considerazione particolare per l’angoscia di morte come fattore egemone o rilevante della dinamica psichica umana e delle sue degenerazioni patologiche.

Anche l’opera monumentale “Lo stress della vita” in cui H. Selye, agli inizi degli anni ’50, indicò appunto nello stress il fattore centrale di ogni malessere fisico e psichico, mentre discute in modo dettagliato le varie forme di stress psichico, ignora del tutto tra le fonti di stress l’angoscia della morte, cioè la forma di stress più antica e più tipica dell’essere umano.

Quanto alla psichiatria, né nei suoi esordi (W. Griesinger, E. Kraepelin), né nei suoi sviluppi ulteriori di stampo sia biologistico che psicodinamico e sociologistico, né a livello di ricerca, né a livello di terapia, l’angoscia di morte viene riconosciuta come fattore patogeno centrale suscettibile di molteplici travestimenti. Tutt’al più, sulla falsariga delle interpretazioni psicoanalitiche, si vede in essa un’ansia di copertura finalizzata a mascherare altre angosce più forti e profonde.

Così, per esempio, in un’opera dedicata al “Complesso catastrofale della morte”, lo psichiatra americano J.C. Rheingold sostiene che, se un individuo ha avuto un buon rapporto con la madre nell’infanzia, egli non andrà soggetto a nessun timore angoscioso della morte ma, al contrario, “accetterà la morte come parte naturale della sua concezione del mondo”.

E idee analoghe sono espresse dai famosi psichiatri J. Bowlby, A. J. Levin e J. C. Moloney: quest’ultimo anzi arriverà a definire l’angoscia di morte “un semplice meccanismo culturale”.

Insomma, l’esame degli atteggiamenti psicologici e psichiatrici prevalenti verso il tema dell’angoscia di morte ci porta a scoprire che perfino le scienze più specificamente finalizzate a studiare le tensioni psichiche umane e, quindi, la loro componente essenziale, cioè l’angoscia, hanno di solito sottaciuto o rimosso il fattore (e spesso anche la manifestazione) più imponente e specifica di angoscia dell’essere umano, oppure hanno tentato di “interpretarla” come travestimento di angosce più profonde.

Si è verificato e si verifica, in fondo, un fenomeno molto simile a quello rilevato da Freud, alla fine dell‘800, in rapporto alle pulsioni sessuali. Com’è noto Freud racconta che, mentre studiava con Charcot alla Salpetrière di Parigi, il famoso psichiatra francese, dinanzi ad un’isterica che produceva una quantità di sintomi e comportamenti di chiaro significato sessuale, disse ridendo con trasparente allusione alla connotazione sessuale dei sintomi: “C’est toujours ca, toujours ca!” e passò subito a parlare. Freud colse immediatamente, però, l’assurdità scientifica di quel comportamento di Charcot e anche da quella riflessione nacque la ricerca freudiana sui problemi della sessualità.

Qualcosa di molto simile, però. È accaduto a Freud e continua ad accadere agli psicoterapisti e psichiatri delle più diverse scuole dinanzi all’angoscia di morte più o meno apertamente espressa dai loro pazienti. Come ha scritto Herman Feifel: “Le tematiche e la fantasie di morte sono vistose e ricorrenti nella clientela di psicologi e psichiatri”.

In altre parole, l’angoscia di morte viene manifestata da una maggioranza e può essere slatentizzata in un’altra robusta quota di pazienti, ma ben pochi psicoterapisti e psichiatri sono disposti a riconoscerne l’esistenza e tanto meno a considerarla un’angoscia reale: essa deve essere sempre e solo un’angoscia di copertura.